sabato, dicembre 30, 2006

La morte per tutti e per nessuno



Charles Bukowsky (Hank) scrive (“pulp”18,II):
Mentre aspettavo ammazzai 4 mosche. Accidenti,la morte era dappertutto. Uomini,uccelli, belve, rettili, roditori, insetti, pesci, nessuno aveva la minima probabilità di sfuggirle. Li sistemava tutti. Non sapevo che cosa fare al riguardo.Mi venne la depressione. Sapete,vedo un fattorino al supermercato,sta mettendo in un cartone la mia spesa, poi lo vedo infilarsi nella propria tomba, insieme alla carta igienica, alla birra e ai petti di pollo”

Osserviamo un’analisi completa di una categoria logica e metafisica (ontica, prima e ontologica dopo) di un’antropologia “scientifica” della morte, dando a quest’aggettivo la stessa accezione che ne dava Husserl: un senso scientifico=eidetico=essenziale (va beh questo pezzo l'ho scritto per fare una sboronata,se non ci capite un cazzo pensate che "forse" non ci ho capito manco io che l'ho scritto).
Abbiamo infatti, in questa descrizione letteraria, un percorso dall’induzione alla deduzione, cioè dall’esperienza personale, al contraccolpo metafisico, all’esperienza emotiva, fino a concludere con una rappresentazione immaginativa che è la chiara semantica dello stato contingentemente depressivo in cui il suo animo è temporaneamente piombato.

Il punto di partenza di questa fenomenologia è l’uccisione,da parte di Hank, di 4 mosche, mentre sta facendo coda alla cassa del supermercato.
Possiamo pensare che il fastidio che gli generavano sia stata la causa della decisione di quel gesto. Hank descrive una Los Angeles torrida, in cui un uomo solo si dispone a procacciarsi cibo, bevande e carta igienica al supermercato, quasi all’ora di chiusura, in cui si fa la fila, alla cassa, in piedi, asciugandosi il sudore, con le mosche che si pongono insistemente sulla pelle irritata dal sudore e dal caldo.

Se ci lasciamo portare dall’immaginazione facilmente riusciamo a trasportarci nei panni di Hank e capire le motivazioni che lo hanno portato a uccidere le mosche. Ci mettiamo dentro anche una certa soddisfazione che può aver inizialmente comportato in Hank, il compimento di quel gesto. Calcolando anche che le code alle casse piene sono particolarmente noiose e predispongono a considerazioni filosofiche su quanto tempo sbattiamo nel cesso quotidianamente in questo modo.

Hank però è uno che attraversa queste situazioni carico di alcool e di mente immaginativa. Certo non poteva fermarsi alla banale considerazione che “la morte è dappertutto”, passa in rassegna pressoché tutte le categorie dei viventi, escluse le piante, e le rinchiude, logicamente all’interno di un’idea di ineluttabile destino. Che immediatamente richiama l’umana impotenza “Non sapevo che cosa fare al riguardo” E’ chiaro che qui Hank non intende “fare” come una cosa per tutti, non intende “ “cosa fare “ per il problema in se , ma cosa fare per “tirarmi fuori” da questo destino.

Qui avviene quello che Freud chiamerebbe “interposizione” cioè: Hank sposta su un altro individuo l’indomabile paura di pensare all’annullamento di se stessi, in prima persona.

Come dice Heidegger: l’uomo coglie la propria temporalità secondo un concetto “inautentico” di tempo, perché non si riferisce al tempo, secondo un senso oggettivo, passato,presente,futuro, ma quest’ultimo, il futuro, lo programma, come se funzionalmente, non esistesse nella sua realtà (non essere di noi in prima persona) , ma esistesse come indeterminata quantità del tempo che si espande davanti a noi, come un sentiero senza fine.

Anche Hank cede alla tentazione di negare l’essenza del futuro a se stesso, però ci riesce fino ad un certo punto, perché la sua rappresentazione gli riporta, nella visione del fattorino che scende da solo nella tomba, un mithos universale. Nel fattorino ci sono tutti, anche lui, in un punto temporale indistinto tra passato, presente e futuro.C'è il destino dell'uomo pensante-vivente e di tutti gli altri,che ha vissuto o vivranno,universalmente parlando. C'è la domanda senza risposta, all'ignoranza della quale l'uomo riponde attraverso l'utleriore negazione della vita, che è la religione.


Il fattorino che, scende nella tomba, portandosi il sacchetto della spesa, fa riaffiorare, nella dimensione immaginativa, la porta carraia dello Zarathustra di Nietszche. La strada del presente e quella del futuro convergono in un punto temporale ineffabile, rivelativo, eterno: l’Attimo.
Solo che Nietzsche fa risorgere tutte le cose proprio nel punto in cui sembrano negate nel modo piu’ definitivo (attraverso il pensiero dell’Eterno Ritorno, la vera illuminazione di questo maestro indiscutibile del pensiero),mentre mediamente gli umani si soffermano al lato depressivo della negazione, alla morte come assoluta perdita di ogni senso. Questo “pensiero abissale” appare insopportabile, da qui la ragione principale per cui, secondo Nietzsche, si opera, come già detto, l’ulteriore negazione della vita attraverso il ricorso alla religione.

Questa medietà del pensiero della morte, è antropologica. Riguarda tutti, anche se la nostra cultura la interpreta nei suoi modi particolari.
Presso di noi, il tema della morte è un tema tabu’. Si fatica pure a nominarla. Salvo poi lasciarsi andare a torbidi pettegolezzi quando qualcuno, sul posto di lavoro, si ammala gravemente. La si paventa, in quel caso, senza nominarla. E non fa differenza se si è cristiani o no, al massimo, il cristiano terminerà il discorso con la solità “speriamo in Dio” e buonanotte.

I bambini sono molto curiosi del tema della morte, ne chiedono fin dai 5 anni e in certi casi pure prima. I genitori credenti hanno buon gioco a raccontare dell’immortalità dell’anima, perché la mente dei bambini, se non hanno avuto particolari traumi, passata la fase di “permanenza dell’oggetto” non concepisce l’idea del nulla. L’anima che vola “lassu’” è un’idea plausibile.
Io, che non ho voluto influenzare in tal modo mia figlia , ho dato delle spiegazioni solo riguardo a quello che mi è dato sapere dalla mia esperienza, e cioè che di sicuro l’anima non sta dentro il cadavere, che non so dove vada e che non so neppure dove viene.
Mia figlia dunque ci ha lavorato con l’immaginazione e ha maturato la convinzione che “si muore ma poi si rinasce” e che, naturalmente, Dio presiede a tutto questo.

I bambini sono vergini rispetto alla naturale paura della morte, che viene alimentata nella vita, dall’esperienza della mancanza, prima della quale, non si considera la morte come origine di particolari sventure.
Cio’ dimostra che i bambini hanno paure piu’ potenti della morte (l’abbandono, per esempio)di fronte alla quale si comportano in modo molto piu’ naturale di noi, dandola per quella che è: una possibilità che è propria di tutti, senza eccezioni.

Nella nostra società questa visione infantile della morte viene strangolata o dalla cultura dell’immortalità dell’anima, che cancella con la consolazione che non ci sia, l’idea del nostro proprio annullamento, o con un mondo magico, una “realtà parallela” in parte costruita nell’inconscio collettivo come la realtà virtuale dei film e dei giochi “cavallereschi”, in parte con questo mito dell’onnipotenza della scienza, che, arriverà a risolvere tutti i problemi, ci vogliono però tempo e biada (soldi) per permettere a questi “angeli dell’umanità”(gli “scienziati”) di sconfiggere dolore e morte.
In ogni caso, la morte è fuori da ogni criterio con cui prendiamo le nostre decisioni. Semplicemente la si nega, come la polvere spazzata sotto il tappeto. L’ideologia religiosa è fondamentale in cio’, ma lo è anche il mito della vita e della giovinezza, per noi “controllabili” attraverso prodotti di bellezza, consigni degli esperti, vita orientata ad un “saggio” e sempre rinnovato “consumismo”, che scaccia la depressione e alimenta l’illusione di poterci comprare “sempre piu’ vita”.

Il benessere del capitalismo imperialistico, alimenta la popolazione del cosiddetto occidente, con un’idea di mortalità artificiale, quasi inesistente , verso cui, per usare le parole di Bukowsky, si nutre la fiducia che ci sia qualcuno che “sa”che cosa fare al riguardo.
La scienza becera fa capo all’ idea metafisica della possibilità di programmare il tempo, a breve, medio, lungo termine, come se il futuro fosse una cosa di gomma, un oggetto allungabile.

Mentre invece il futuro è, per dirla con Heidegger, la nostra possibilità più propria: la morte, che ha primato più di ogni altra cosa. Noi non abbiamo nessuna certezza perché puo’ intervenire qualsiasi fattore a scombinare i nostri piani , ma sicuramente, con evidenza cartesiana, possiamo dire che la nostra vita biologica ha un termine, che sarà un certo giorno, di una certa ora, minuti, secondi, del calendario di questa vita. Il pensiero dell’immortalità dell’anima, in una logica terrena, e, assolutamente non materialistica, appare come il tentativo di riempire il nulla posto dalla morte, con un simulacro dell’essere. Questa prospettiva ha realtà solo come esigenza psicologica.

In fondo Hank questo pensiero vorrebbe scacciarlo, ma l’immagine del fattorino, che s’infila da solo nella tomba, portandosi dietro il cibo, la birra e da pulirsi il culo, è un’idea onesta della morte, la cui tragedia, quella vera, è il risucchiarsi nel nulla, della nostra identità.
Senza l’illuminazione di Zarathustra, questo resta semplicemente l’abisso, che gli umani dovrebbero imparare a tenere nel giusto conto, specie quando hanno, per qualsiasi motivo, voce in capitolo sulle decisioni che riguardano gli altri, perché per noi i nostri simili hanno primariamente il significato di “farci da specchio”.

ps rileggendo il tutto mi sono accorta che gli ultimi tre post che ho scritto sono leggermente monotematici. Sarà l'anno nuovo incipiente che m'ispira riflessioni sul tempo e sul cambiamento. Pigliatelo come un buon augurio ,paradossale ma buono.

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